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domenica 6 giugno 2010

Sant'Antonio sacerdote e il pensiero di Antonio sul sacerdote, alla luce degli insegnamenti di Papa Benedetto XVI

Volge al termine l'anno sacerdotale. Non potevamo da questo blog non lanciare qualche messaggio antoniano a proposito del sacerdozio, visto che Antonio è il primo santo sacerdote dell'Ordine Francescano, diventato santo proprio in quanto grande predicatore del Vangelo e apostolo della confessione sacramentale. Ma si sa, gli impegni sono tanti e le ristrettezze di tempo danno poco spazio a pensare e scrivere. Ci viene in soccorso un caro confratello, vicario della Basilica del Santo di Padova, che ha recentemente tenuto una conferenza interessante su questo tema. Gentilmente me l'ha passata e con il suo permesso la giro ai visitatori. Non è bene che i tesori, piccoli o grandi, siano nascosti. Buona lettura

Sant’Antonio di Padova, Sacerdote

Introduzione

Innanzitutto una breve inquadratura storica. Non sappiamo con certezza quando sant’Antonio abbia ricevuto l’ordinazione sacerdotale, come del resto non si conosce l’anno esatto della sua nascita. Egli venne alla luce di questo mondo a Lisbona circa l’anno 1195; al fonte battesimale ricevette il nome di Fernando. Allo stato attuale gli esperti concordano sul fatto che “Antonio era già sacerdote al momento d’abbracciare la forma vitae francescana. L’ordinazione gli fu conferita nella canonia agostiniana di Santa Cruz in Coimbra, probabilmente correndo il 1220, quando era nel suo 25° anno” [1] Il nostro Santo non ebbe, quindi, una lunghissima esperienza sacerdotale: soltanto 11 anni (morì infatti il 13 giugno 1231), al massimo 12 o 13 (suggestivo, il numero 13, nella vicenda biografica del Santo…). Fu, inoltre, quasi del tutto sacerdote francescano, perché in quel medesimo anno 1220 il canonico agostiniano Fernando chiese ed ottenne di entrare nell’Ordine dei Frati Minori, prendendo il nome di Antonio, il grande Padre del monachesimo.

Il ministero sacerdotale di frate Antonio si dispiegò negli anni che seguirono il Concilio Lateranense IV, celebrato nel 1215, evento ecclesiale che contraddistinse il pontificato di Innocenzo III (1198-1216), al quale va il merito, tra l’altro, di aver dato la prima approvazione (1209) ai penitenti di Assisi, guidati da Francesco. Il Concilio, uno dei più importante nella storia della Chiesa, con la partecipazione di molti padri (più di 1200), era stato convocato da papa Innocenzo con due finalità primarie: l’organizzazione di una nuova crociata e, soprattutto, la riforma della Chiesa, che stava in grande sofferenza. Furono approvati numerosi canoni per la riforma morale del clero, la disciplina ecclesiastica, l’amministrazione del Sacramenti. Si raccomandò ai vescovi di istituire nelle cattedrali e nelle chiese conventuali predicatori stabili e di istruire adeguatamente i candidati al sacerdozio; la vita religiosa e morale del popolo ricevette impulso e disciplina, fu stabilito l’obbligo per i fedeli della Confessione annuale, raggiunta l’età della ragione, e della Comunione almeno a Pasqua (il cosiddetto “precetto pasquale”). Quella del Lateranense IV fu la legislazione più importante prima del Concilio di Trento ed ebbe il merito di adattare la Chiesa del sec. XIII ai bisogni del tempo. Sant’Antonio seppe fare la sua parte.

Un ulteriore inquadratura, per comprendere il ministero sacerdotale di Antonio, è quella che ci viene offerta dalle Fonti francescane: La Regola bollata, innanzitutto, approvata da Onorio III il 29 novembre 1223, che al cap. IX disciplina il ministero dei predicatori, e la successiva lettera di san Francesco ad Antonio, con la quale lo autorizza ad insegnare la teologia ai frati. E, di fatto, frate Antonio fu il primo maestro di teologia dell’Ordine minoritico.

Così recita la Regola bollata, al cap. IX: “I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo, qualora dallo stesso vescovo sia stato loro proibito[2]. E nessuno dei frati osi assolutamente predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato o approvato dal ministro generale di questa fraternità e dal medesimo non gli sia stato concesso l’ufficio della predicazione. Ammonisco inoltre ed esorto gli stessi frati che, nella predicazione che fanno, le loro parole siano esaminate e caste, a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché brevi discorsi fece il Signore sulla terra”[3]. Si tratta di una predicazione tipicamente morale-penitenziale, come fu quella dei predicatori francescani della prima ora, che ebbe in frate Antonio un originale e insigne esponente.

Breve e intenso è il testo della lettera, o meglio del biglietto inviato da Francesco ad Antonio: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione tu non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola”[4].

Sant’Antonio, sacerdote francescano

Un grande passo per il Santo avvenne con l’ingresso nell’Ordine francescano, dopo il forte impatto che ebbe in lui il martirio avvenuto in Marocco (16 gennaio 1220) dei primi frati minori. Il canonico agostiniano Fernando aveva visto giungere a Santa Cruz in Coimbra le reliquie dei protomartiri francescani e il desiderio di una vita più evangelica, fino al martirio, lo aveva spinto ad imbarcarsi anche lui per il Marocco, rivestito del povero saio francescano. Ma per lui la Provvidenza aveva in serbo altri progetti e fu costretto da una malattia a ritornare sui suoi passi. E sappiamo come egli approdò nelle nostre terre che divennero il teatro, assieme al sud della Francia, del suo ministero sacerdotale.
Le biografie più antiche del Santo, pur con qualche lacuna, ce lo presentano soprattutto nella sua intensa attività di predicatore, fino alla grande quaresima del 1231 a Padova, pochi mesi prima della morte. Furono molteplici i frutti di rinnovamento cristiano tra i fedeli e di conversione degli eretici. La sua grande opera, i Sermoni, ci testimoniano “con eloquenza” della vasta cultura che egli ebbe modo di perfezionare particolarmente durante la permanenza nella canonia agostiniana di Santa Cruz a Coimbra. I Sermoni, come sappiamo, non sono le prediche di sant’Antonio. Si tratta, infatti, di un’opera scritta a tavolino, da definire meglio come “Commentario biblico-patristico-liturgico-esistenziale”, destinata ai predicatori francescani, un manuale da studio, un compendio di interpretazione della Scrittura, un formulario di teologia, con i pregi e con i limiti di un prodotto tipico della cultura del primo duecento. L’opera del Dottore Evangelico (titolo che la Chiesa gli ha riconosciuto nel 1946) segue lo svolgimento dell’anno liturgico, le domeniche e le feste mariane e dei santi. Il tempo a disposizione non mi permette di dire di più, ma non mancano gli strumenti per approfondire, se volete.

Dai Sermoni e dalle biografie del Santo noi possiamo tracciare un ritratto completo del sacerdote francescano Antonio, che nella sua opera ci lascia con chiarezza il suo pensiero sul sacerdozio stesso, sulla figura del sacerdote, ma anche del religioso. Frate Antonio rivolge di frequente il suo discorso al clero, per lo più in forma di richiamo, rimprovero, esortazione e, in questo, spesso accomuna clero regolare e clero secolare. Pur non essendo i Sermoni un trattato di teologia vero e proprio, tuttavia si può cogliere in essi una riflessione teologia circa il sacerdozio, come pure sulla vita religiosa. Viene affermato con chiarezza che il sacerdozio è sacramento della Chiesa. In forza del sacramento dell’Ordine, i sacerdoti partecipano così intimamente al sacerdozio eterno di Cristo, da diventare suoi ministri e rappresentanti non solo per ufficio, ma quasi per natura. Nella persona di Cristo e della sua Chiesa, essi hanno il compito di evangelizzare e istruire tutti gli uomini, radunarli e governarli nella Chiesa, santificarli con l’amministrazione dei sacramenti. Essi sono, dunque i costruttori del corpo mistico di Cristo. A sant’Antonio sta a cuore non solo la realtà sacramentale e la missione del sacerdote, ma anche – e si potrebbe dire soprattutto – la sua vita, la sua esemplarità. Tutto il discorso del Santo è teso a far sì che il sacerdote abbia a prendere piena coscienza della grazia del suo sacerdozio e a viverne di conseguenza: cioè, come persona consacrata e convertita, che ha il compito specifico di chiamare a conversione e santificare.

Il sacerdote, secondo sant’Antonio, è l’uomo dell’altare, del sacrificio, dell’Eucaristia, dell’Assoluzione; egli fonda sempre le sue argomentazioni su una solida base biblica. Il significato fondamentale del termine «sacerdote», per il nostro Santo, è propriamente quello di “uomo del sacro”, ossia “uomo del sacrificio”. E a questo proposito sant’Antonio concentra la sua riflessione sul potere eucaristico e su ciò che apre la strada all’Eucaristia, come, e specialmente, l’assoluzione del peccato. Sull’assoluzione sacramentale nella Penitenza, il pensiero del Santo è molto ampio e non privo di una certa originalità. Egli non esita a dire: “Il sacerdote è il vicario di Cristo Gesù e del suo amore”[5]. Per questo egli assolve, libera, dona la vita.

Il sacerdote, inoltre, è la guida della comunità per mezzo del ministero della Parola. La testimonianza del Santo a questo riguarda è di assoluto rilievo: è la Parola ad avere il primato nella vita della comunità cristiana. È di assolto rilievo questo primato nella sua opera, che contiene più di seimila citazioni della Scrittura! “Archa Testamenti” lo chiamò Papa Gregorio IX, che ebbe modo di ascoltare a lungo frate Antonio, nel 1230, durante la missione svolta dal Santo presso la Curia Romana, assieme ad altri frati, su incarico del Capitolo generale. Il medesimo Pontefice canonizzò Antonio il 30 maggio 1232.

Commentando la lettera dell’apostolo san Giacomo (cap. 5), sant’Antonio scrive: “L’agricoltore che coltiva e monda il campo, è il predicatore, il quale con il sudore del suo volto e con il vomere della parola, coltiva il campo, cioè le anime dei fedeli… queste sono il campo del Signore”[6].
Il ministero sacerdotale esiste per permettere al sacerdozio di Cristo, ossia a Cristo capo, di collocarsi nel mondo in cui viviamo, alla portata di coloro ai quali è rivolto. È molto bella questa espressione del Santo: “I prelati della Chiesa sono il volto di Cristo, per mezzo dei quali, come attraverso il volto, noi conosciamo Dio”[7]. I sacerdoti, come già gli apostoli, e prima ancora Gesù, non sono mandati per rimpiazzare, sostituire un assente, ma per consentire una pienezza di azione, unica e insostituibile, come Cristo è stato inviato per dare al Padre una pienezza di presenza tra gli uomini. È in questo senso che sant’Antonio esclama: “Il sacerdote è il vicario di Cristo… vicario del suo amore”.

A partire da tutto questo sant’Antonio, constatando la condotta mediocre, spesso anche lacunosa, del clero del suo tempo, chiede ai sacerdoti un’adeguata consapevolezza della loro dignità e responsabilità e consegna loro le indispensabili linee ascetiche.

a) Il sacerdote deve coltivare le virtù umane. La sua vita “deve essere ordinata e condotta con sapienza, perché sia innanzitutto retta per quanto riguarda se stesso, comprensiva per quanto riguarda il suddito; piena di onestà e di modestia, abile nel proporre e persuadere, affettuoso con i buoni, comprensivo e capace di compatire, di giudicare rettamente, secondo giustizia, per non fare differenze e opposizione di persone”[8].

b) Il sacerdote è amante della povertà, come il suo maestro, Cristo, che predilesse i poveri. Vigorose sono le pagine del Santo sul tema della povertà, a volte addirittura violente. Senza amore alla povertà (come condizione di umiltà e come tensione apostolica), il sacerdote rischia di compromettersi con il mondo della ricchezza, che è spesso il mondo della prepotenza, dell’ingiustizia, del vizio. Scrive il Santo: “Tre sono i vizi propri del sacerdote: la negligenza nel ministero, che perde le anime; l’avarizia che dissacra l’altare del Signore; la gola e la lussuria come necessaria conseguenza di corruzione”[9].

c) Il sacerdote deve conformarsi a Cristo. È questo un tema trattato in modo ampio e bellissimo, e sul quale il Santo esprime di continuo la sua presenza e la sua sensibilità interiore. Ogni cristiano è santo nella misura in cui stabilisce un rapporto interpersonale con Cristo, che lo vivifica e lo salva. Il sacerdote deve vivere questo rapporto in modo particolare, proprio per la posizione di servizio a Cristo capo, che il sacramento dell’Ordine gli conferisce nella comunione del corpo mistico. Attraverso la chiamata e il sacramento, Cristo entra nella vita del sacerdote come una presenza di identificazione, sia a livello di ciò che il sacerdote deve essere, sia a livello di ciò che deve fare.

Bellissimo il testo che troviamo nella domenica fra l’ottava di Natale: “Cristo è la sapienza… la prudenza… la virtù di Dio… In lui è l’intelligenza di tutto. Lui è il cibo, come pane degli angeli e nutrimento dei giusti. Lui è la luce degli occhi. Lui è la nostra pace, lui che ha riconciliato cielo e terra. Impara, dunque, questa sapienza per essere saggio; questa prudenza per difenderti; questa virtù per aver coraggio; questa vita per mantenerti; questo cibo per non cadere di stanchezza; questa luce per vedere; questa pace per riposarti”[10].

Tre Icone

Nelle scorse settimane, Papa Benedetto XVI si è soffermato, durante le udienze generali sui tre uffici (tria munera) che il sacramento dell’Ordine conferisce al sacerdote. A ciascuna delle tre funzioni possiamo efficacemente accostare altrettante significative “icone” che ben esprimono il ministero sacerdotale di sant’Antonio.
“Oggi, - ha detto il Papa - in piena emergenza educativa, il munus docendi della Chiesa, esercitato concretamente attraverso il ministero di ciascun sacerdote, risulta particolarmente importante. Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita... In questa situazione si realizza la parola del Signore, che ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore. (cfr Mc 6, 34)... Questa è la funzione in persona Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo”[11].
Sant’Antonio ha esercitato in modo mirabile la potestà di insegnare, sia come “docente” di teologia nell’Ordine, sia come infaticabile predicatore.

Benedetto XVI ha dedicato a sant’Antonio di Padova la catechesi dell’udienza generale del 10 febbraio 2010, felice sintesi dell’esperienza umana, spirituale e apostolica del Santo. Riporto soltanto il passaggio conclusivo: “Possa Antonio di Padova, tanto venerato dai fedeli, intercedere per la Chiesa intera, e soprattutto per coloro che si dedicano alla predicazione. Questi, traendo ispirazione dal suo esempio, abbiano cura di unire solida e sana dottrina, pietà sincera e fervorosa, incisività nella comunicazione. In quest’anno sacerdotale, preghiamo perché i sacerdoti e i diaconi svolgano con sollecitudine questo ministero di annuncio e attualizzazione della Parola di Dio ai fedeli, soprattutto attraverso le omelie liturgiche. Siano esse una presentazione efficace dell’eterna bellezza di Cristo, proprio come Antonio raccomandava: «Se predichi Gesù, egli scioglie i cuori duri; se lo invochi, addolcisci le amare tentazioni; se lo pensi, ti illumina il cuore; se lo leggi, egli ti sazia la mente» (Sermones Dominicales et Festivi III, p. 59)”[12].
L’icona che esprime il munus docendi in sant’Antonio è la sua predicazione dal noce. L’artista Pietro Annigoni l’ha ben rappresentato nel grande affresco (1985) della controfacciata della Basilica: quasi sospeso tra cielo e terra, mediatore tra Dio e gli uomini, Antonio offre alla gente bisognosa di verità la luce della Parola.
Attraverso la potestà di santificare, il sacerdote rende attuale la salvezza operata da Cristo. “Chi salva il mondo e l’uomo? – si è chiesto il Papa commentando il munus santificandi –. L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio, nel Sacramento della Riconciliazione, in cui dalla morte del peccato si torna alla vita nuova, e in ogni altro atto sacramentale di santificazione (cfr PO, 5)”[13].

Sant’Antonio è stato esemplare ministro dell’Eucaristia, che egli celebrava quotidianamente, e della Riconciliazione. La “giornata-tipo” del Santo, durante la famosa quaresima del 1231, da lui predicata ogni giorno (fu il primo ad inaugurare una tradizione che ebbe fortuna nei secoli), era questa: celebrata la Messa al mattino, teneva la predica al popolo, dapprima nelle chiese, poi nelle piazze di Padova e quindi nei prati fuori delle mura cittadine, a causa del crescendo continua della folla che accorreva ad ascoltarlo; la Vita prima testimonia che non di rado assistevano al discorso anche trentamila persone, mentre dominava un impressionante silenzio, perché “tutti tenevano sospeso l’animo e l’orecchio verso di lui che parlava”[14]. Poi Antonio diventava instancabile confessore per tutta la giornata. L’autore della prima biografia del Santo nota con meraviglia che, “afflitto com’era da continua infermità, tuttavia, per lo zelo instancabile delle anime, egli perseverasse nel predicare, nell’insegnare e nell’ascoltare le confessioni fino al tramonto del sole, e molto spesso digiuno”[15]. E inoltre: “Non posso passar sotto silenzio come egli induceva a confessare i peccati una moltitudine così grande di uomini e donne, da non essere bastanti a udirli né i frati, né altri sacerdoti, che in non piccola schiera lo accompagnavano”[16].

Uomo sempre coerente, Antonio! Non solo ha scritto (e molto) e predicato (ancora di più) sulla penitenza e confessione dei peccati, ma è stato egli stesso un grande confessore.

Benedetto XVI ha più volte esortato i sacerdoti, in questo anno sacerdotale, a “tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui ‘abitare’ più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell’Eucaristia (Discorso alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010)”[17].

L’icona che suggestivamente “racconta” il munus santificandi di Antonio potrebbe essere quella dove il Santo, rivestito dei paramenti sacerdotali, porta l’Eucaristia, mentre anche la mula di un eretico, digiuna da tre giorni, si inginocchia davanti al SS. Sacramento. Il grande Donatello ha descritto la scena in uno dei mirabili bassorilievi bronzei che adornano l’altare maggiore della Basilica.

E, infine, il munus gubernandi. Sant’Antonio lo ha esercitato, in particolare, quando ha svolto l’ufficio di Custode e Ministro dei frati, in Francia e nell’Italia del Nord. Esso è legato al concetto di “gerarchia”, così presentato da Benedetto XVI: “Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe ‘sacro dominio’, ma il vero significato non è questo, è ‘sacra origine’, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la ‘gerarchia’, non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio”[18].

Sant’Antonio ha esercitato la sua ‘autorità’ in autentica obbedienza a Cristo e, da esemplare discepolo di Francesco d’Assisi, soprattutto per difendere i poveri, gli ultimi, gli indifesi, compresi i piccoli, i bambini: molti dei miracoli operati dal Santo hanno come protagonisti i bambini.

Se sant’Antonio può essere giustamente chiamato “Defensor fidei”, per la sua straordinaria predicazione indirizzata a difendere la retta fede (contro le varie eresie che allora imperversavano), egli può essere anche definito “Defensor pauperum”, sempre sollecito delle sorti dei deboli, degli indifesi, degli oppressi, privati della libertà e rinchiusi in carcere, strozzati dall’usura che nel suo tempo tristemente opprimeva tanta povera gente.

Due sono gli episodi molto espressivi, che si collocano alla fine della sua breve esistenza terrena: l’intervento, durante la sua predicazione quaresimale, presso il comune di Padova, che il 17 marzo 1231 (era il lunedì santo), deliberò – “su istanza del venerabile frate Antonio, dell’Ordine dei frati Minori” – che da allora in poi nessuno fosse detenuto nelle carceri a causa dei suoi debiti, qualora egli fosse disposto a rinunciare ai suoi beni; e poi, nel mese di maggio, l’incontro di Antonio – ormai ammalato e stanco – con Ezzelino III da Romano, a Verona, per perorare la liberazione di alcuni padovani. Impresa che non gli riuscì, ma che fu comunque eroica, viste le gravi condizioni di salute in cui versava.

Pietro Annigoni ha raccontato questo episodio con un suo affresco nella Cappella delle benedizioni (1982). Il Santo sta fieramente diritto davanti al tiranno, che aveva fama di sanguinario, armato della sola potenza della Parola, rappresentata dal libro che tiene tra le mani; Ezzelino, contorto e ripiegato su di sé, appare come spaventato di fronte all’uomo di Dio, che sempre sostiene il suo servo. “Nel nostro tempo – annota il minorita francesce Giovanni de la Rochelle (+1245) – mai abbiamo udito un consolatore così dolce dei poveri e un così aspro accusatore dei potenti”.

Il piombino del muratore

Scrive sant’Antonio: “La giustizia dei santi (la loro santità) è come un filo a piombo che viene teso su ogni anima fedele, affinché misuri e conformi la sua vita sull’esempio della loro”[19].

A lode di Dio e del suo servo Antonio!

Fr. Giorgio Laggioni, OfmConv

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[1] V. Gamboso, Saggio di cronotassi antoniana, «Il Santo» 21 (1981), 515-598.
[2] Si applica una norma della Costituzione 3 del concilio Lateranense IV.
[3] Rb IX: FF 98-99.
[4] FF 251.
[5] Sermones, II, p. 587.
[6] Sermones, I, p. 308.
[7] Sermones, I, p. 54.
[8] Sermones, III, p. 137-38.
[9] Sermones, I, p. 502.
[10] Sermones, II, p. 525.
[11] Udienza generale, 14 aprile 2010.
[12] Udienza generale, 10 febbraio 2010.
[13] Udienza generale, 5 maggio 2010.
[14] Vita prima o Assidua, I, 13, 7.
[15] Ivi, I, 11, 7.
[16] Ivi, I, 13, 13.
[17] Udienza generale, 5 maggio 2010.
[18] Udienza generale, 26 maggio 2010.
[19] Sermones, I, 11.

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