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mercoledì 18 maggio 2011

Il velo del calice e la benedizione dell'incenso

Riprendo da ZENIT questo articolo di Nicola Bux su due aspetti della simbologia liturgica, spesso tralasciati, sebbene previsti dalle rubriche della III edizione del Messale di Paolo VI (ahimè, tanto poco conosciute, sebbene già in vigore - anche in Italai - da 10 anni!!):


IL VELO DEL CALICE E LA BENEDIZIONE DELL’INCENSO
di Nicola Bux*

Si odono di frequente richiami a volgere l’attenzione all’Oriente cristiano, intanto sono omessi nel rito romano elementi che lo richiamano, come velare il calice e benedire l’incenso. La presenza di tende e veli nella liturgia è riconducibile al culto giudaico; per esempio il doppio velo all’ingresso del santuario nel tempio di Gerusalemme, segno di riverenza verso il mistero della Shekina, la presenza divina. Così per l’incenso e gli altri aromi che bruciavano sull’altare apposito antistante, al fine di elevare visibilmente l’anima alla preghiera, secondo le parole del salmo 140: Dirigatur, Domine, oratio mea, sicut incensum, in conspectu tuo – La mia preghiera stia davanti a te come incenso, o Signore. Nello stesso tempo il profumo copriva l’effetto sgradevole degli odori degli animali immolati e del sangue dei sacrifici.
Il velo rappresenta visibilmente l’esigenza di non toccare con mani, impure, le cose sacre: un simbolo dell’esigenza di purezza spirituale per avvicinarsi a Dio. Se la liturgia è fatta di simboli, questo è uno dei più importanti. I veli coprono le mani dei ministri, come gli angeli offerenti rappresentati nell’arte bizantina e romanica. In linea di principio, i vasi sacri, quando non in uso, sono sempre velati per alludere alla ricchezza che vi si nasconde.
Vasi sacri bizantini
Il velo del calice è un piccolo drappo del medesimo colore e stoffa della pianeta o casula, oppure sempre bianco, che serve a coprire tutto il calice, sull’altare o sulla credenza, dall’inizio della Messa all’ offertorio; e poi dopo la purificazione che segue la comunione. Nel rito bizantino i veli sono due, per il calice e per il disco, ovvero la patena dei pani da consacrare. Nel rito romano, sebbene sia prescritto «lodevolmente» dall’Ordinamento generale del Messale di Paolo VI (n. 118), il velo che copre il calice è, nell’odierna prassi celebrativa, ordinariamente omesso.
Veniamo all’incensazione. Il sacerdote, all’inizio della Liturgia Eucaristica, messo l’incenso nel turibolo, lo benedice e poi incensa tutto l’altare, in onore del Signore. L’incenso viene benedetto, nella Messa in forma extraordinaria, con la preghiera: Per intercessionem beati Michaelis Archangeli, stantis a dextris altaris incensi, et omnium electorum suorum, incensum istud dignetur Dominus benedicere, et in odorem suavitatis accipere – Per intercessione di san Michele arcangelo, che sta alla destra dell’altare dell’incenso, e di tutti i suoi santi, il Signore voglia benedire questo incenso e accoglierlo come profumo a Lui gradito. Questa benedizione è più solenne della prima, nella quale si dice: Ab illo benedicaris, in cuius honore cremaberis – Ti benedica Colui in onore del quale sarai bruciato. Qui sono invocati gli angeli perché il mistero dell’incenso non rappresenta altro che la preghiera dei santi presentata a Dio dagli angeli, come dice san Giovanni nell’Apocalisse (8,4): Et ascendit fumus incensorum de orationibus sanctorum de manu angeli coram Deo – E dalla mano dell’Angelo il fumo degli aromi ascende con la preghiera dei santi davanti a Dio.
Ancor prima però, come spiega Prosper Guéranger, «siccome il pane e il vino che ha offerti hanno cessato d’appartenere all’ordine delle cose comuni e usuali, [il sacerdote] li profuma con l’incenso, come fa per Cristo stesso, rappresentato dall’altare». Belle le parole che accompagnano l’incensazione prima in forma di triplice croce e poi di triplice cerchio sul pane e del calice: Incensum istud a Te benedictum ascendat ad Te Domine et descendat super nos misericordia tua – Ascenda a te, Signore, questo incenso da Te benedetto e discenda su di noi la tua misericordia. È tutto il senso della liturgia, che ascende a gloria della presenza divina e discende per la nostra salvezza – in latino, salvare vuol dire conservare – affinché siamo completamente noi stessi e possiamo vivere in eterno con Dio. Il sacerdote si inchina «in spirito di umiltà e con animo contrito» affinché il sacrificio si compia alla presenza di Dio in modo da essere gradito; poi invoca lo Spirito sulle offerte. Il sacerdote, rendendo il turibolo al diacono, gli rivolge un augurio che fa ugualmente a sé medesimo, dicendo: Accendat in nobis Dominus ignem sui amoris, et flammam aeternae caritatis – Il Signore accenda in noi il fuoco del suo amore e la fiamma dell’eterna carità. Il diacono, ricevendo il turibolo, bacia la mano del sacerdote e poi la parte superiore delle catene, invertendo l’ordine delle azioni che aveva compiuto presentandoglielo. Tutti questi usi sono orientali e la liturgia li conserva perché sono dimostrazioni di rispetto e riverenza.
Dunque, la Chiesa non ha escluso gli aromi dai suoi riti, anzi usa il balsamo per preparare il Crisma. L’incensazione simboleggia il sacrificio perfetto dei santi doni del pane e del vino, cioè Gesù Cristo, a cui sono unite le nostre persone in sacrificio spirituale, emananti profumo soave che sale al cielo (cf. Gen 8,21; Ef 5,2); così sono le preghiere dei santi (Ap 5,8) e le virtù dei cristiani (2Cor 2,15).
Qualcuno osserverà che, da quanto il velo del tempio si è squarciato, non abbiamo più bisogno di alcun velo, e da quando si è offerto il sacrificio di Cristo non abbiamo più bisogno di incenso. In verità non dovremmo nemmeno più aver bisogno di alcun edificio sacro, perché Cristo è il nuovo tempio. Il punto è che, con la venuta di Gesù, il profano non è scomparso del tutto: però è continuamente incalzato dal sacro che è dinamico, in via di compimento: «Perciò dobbiamo ritrovare il coraggio del sacro,il coraggio della distinzione di ciò che è cristiano; non per creare steccati, ma per trasformare, per essere realmente dinamici» (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, Milano 2002, p 127). 


Fonte: Zenit 18-05-2011

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ma la borsa si può ancora utilizzare?

A.R. ha detto...

Se è "lodevole" usare il velo del calice, non si vede perchè non dovrebbe essere permesso custodire il corporale nell'apposita borsa.

Sergio ha detto...

Da quando si è abolito il latino in chiesa,i preti fanno gran sfoggio di greco ed ebraico,quasi sempre a sproposito,con pronuncia sbagliata,e non avendo la minima idea del significato delle parole nella evoluzione storica. Shekhinà per indicare Dio,la presenza di Dio, lo si è incominciato a usare in epoca talmudica,dopo la distruzione del tempio,perciò è un anacronismo dire che il velo del tempio celava la Shekhinà. Ricordo un importante prelato che in una predica parlava del canto del Lekha dodì che Gesù come fanno anche oggi gli ebrei,avrebbe cantato alla vigilia del sabato, non sapendo che questo canto è stato scritto da un ebreo spagnolo nel sedicesimo secolo, dopo Cristo naturalmente. E gli esempi sono numerosi,ma lasciamo perdere...

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