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domenica 14 luglio 2013

Benedetto XVI: il "buon Samaritano" è Gesù che soccorre l'umanità

La parabola del buon Samaritano illustrata in un'icona romena
E chi è quel Samaritano se non lo stesso Salvatore?
O chi fa maggiore misericordia a noi,
quasi uccisi dalle potenze delle tenebre
con ferite, paure, desideri, furori, tristezze, frodi, piaceri?
Di queste ferite solo Gesù è medico;
egli solo sradica i vizi dalle radici
                                                                  Clemente Alessandrino, Quis dives 29

Vi cito un brano dal libro di J. Ratzinger Gesù di Nazaret, dal battesimo alla trasfigurazione, Rizzoli 2007 (ed. dig. 2011), un testo adatto a meditare la parabola di oggi, quella del "buon Samaritano" (Lc 10,25-37), non nella consueta e necessaria chiave morale, ma in chiave cristologica, secondo il "senso spirituale" tipico della teologia antica e medievale, che andava a cercare Gesù e la sua azione in ogni pagina dell'Antico e del Nuovo Testamento:
I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un'interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un'interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l'uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un'immagine di «Adamo», dell'uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l'uomo, questa creatura che è l'uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell'umanità è quasi sempre vissuta nell'oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori — sono essi forse le vere immagini dell'uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell'uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l'«alienazione» dell'uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell'alienazione, perché ragionava solo nell'ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell'uomo che è caduto vittima dei briganti.
La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell'uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell'imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall'altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell'alienazione dell'uomo. Dicevano che è spoliatus
supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull'umanità. La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l'immagine della storia universale; l'uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell'umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre — da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell'imboscata è per antonomasia l'immagine dell'umanità, allora il samaritano può solo essere l'immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite — un gesto in cui si è vista un'immagine del dono salvifico dei sacramenti — e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l'anticipo per il costo dell'assistenza.
I singoli tratti dell'allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell'uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell'amore, che è l'autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell'amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.
Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall'amore (che è appunto l'essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano — seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

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