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sabato 28 marzo 2009

Newman: "I Padri mi fecero cattolico". Il ruolo dei Padri della Chiesa nella spiritualità del grande cardinale inglese

Ormai praticamente non passa giorno senza che l'Osservatore Romano pubblichi un articolo dedicato a John Henry Newman, cardinale inglese del sec. XIX, convertitosi al cattolicesimo e ideatore del movimento di Oxford per il ritorno dell'anglicanesimo nella famiglia cattolica.
Il suo pensiero, quanto mai fecondo, stimola i teologi contemporanei: sia per la sua visione dei rapporti tra fede, ragione e immaginazione, per quanto riguarda la teologia fondamentale e il funzionamento dell'actus fidei, sia, su un altro versante, per la sua ecclesiologia permeata dalla dottrina patristica, che lo conduce a riconoscere la continuità della fede professata dalla Chiesa antica e dal cattolicesimo a lui contemporaneo. L'articolo di oggi, di Inos Biffi, tratta appunto del tema cruciale: l'incontro di Newman con i grandi padri, in particolare i Cappadoci e Atanasio.

Newman e i Padri della Chiesa: un incontro decisivo 
Gli amici del quarto secolo che fanno bella ogni stagione

di Inos Biffi

Il 13 marzo 1864, domenica di Passione, alle sette del mattino, nel Testamento scritto in attesa della morte, Newman dichiarava: "Affido l'anima mia e il mio corpo alla Santissima Trinità e ai meriti e alla grazia di nostro Signore Gesù, il Dio Incarnato; all'intercessione e alla compassione della nostra cara madre Maria; a san Giuseppe; a san Filippo, mio padre, padre di un figlio indegno; a san Giovanni evangelista; a san Giovanni Battista; a sant'Enrico; a sant'Atanasio, a san Gregorio di Nazianzo; a san Giovanni Crisostomo e a sant'Ambrogio.
L'affido altresì a san Pietro, a san Gregorio I, a san Leone e al grande apostolo san Paolo".
Non sorprende che nell'attesa della morte - che sarebbe sopravvenuta più di un quarto di secolo dopo, nel 1890 - Newman si affidasse alla Santissima Trinità, a Gesù Cristo, a Maria e a Giuseppe, a san Filippo Neri, fondatore degli oratoriani - ai quali apparteneva, e del quale era devotissimo - a san Giovanni Battista e agli apostoli Giovanni, Pietro e Paolo, e a sant'Enrico, del quale, con quello di Giovanni, portava il nome.
Non è però neppure sorprendente - ma molto significativo - che, dopo aver "passato la sua vita nell'intimità dei Padri" (Henri Brémond), Newman si affidasse in morte a quei padri e dottori che rappresentavano ai suoi occhi la gloriosa Chiesa antica: dopo la frequentazione durante tutta la sua vita, a partire dall'adolescenza, non poteva, certo, dimenticarli in morte. Essi erano stati "le sorgenti della sua conversione e della sua vita interiore" (Denis Gorce); li aveva cantati nelle sue più belle liriche; li aveva raccolti con premurosa devozione, in edizioni raffinate, nella sua biblioteca, per stare con loro; li aveva studiati a lungo e con entusiasmo: non poteva dubitare che si sarebbero presentati ad accoglierlo sulla soglia dell'eternità.
L'incontro di Newman con i Padri, con "queste prime luci della Chiesa", come egli li chiama, fu un incontro precoce. Era il 1816, quando questo "sublime inquieto" (Gorce) sperimentò - lo scrive nell'Apologia pro vita sua - "un grande rivolgimento di pensieri", incominciando "a subire l'ascendente di un credo ben definito" e ad accogliere "nella mente certe impressioni sul dogma che, per la grazia di Dio, non sono mai più scomparse né sbiadite".
La storia dei Padri diviene allora, in certa misura, la storia di Newman. E il pensiero va a quello che per lui aveva significato lo studio degli "amici del secolo IV", "il secolo di elezione di Newman", nel quale egli "si trova tutt'intiero" e che è "il suo luogo intellettuale (...) il paesaggio dell'anima che porta nel proprio intimo e trasfigura le sue giornate" (Gorce) - e va al Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, che si concluderà con la scelta dolorosa e doverosa, e insieme gioiosa e liberante, della conversione alla Chiesa cattolica, quando, proprio alla scuola dei padri, sentì sciogliersi l'ostacolo che lo teneva lontano da essa.
Dal dicembre 1832 al giugno 1833 Newman avrebbe compiuto il celebre viaggio nel Mediteranno da cui resterà incantato. Quelle acque, scriverà alla madre il 19 dicembre 1832, gli ricordavano Atanasio, che le aveva attraversate - "Qui il grande Atanasio viaggiò verso Roma" - e lo avvicinavano alle terre dei padri greci, e particolarmente dei "suoi Cappadoci". Il loro ricordo si trasfigura allora in poesia: la poesia che, d'altronde, anima tutta l'opera di Newman.
A bordo della Hermes, tra Zante e Patrasso, Newman canta i Padri greci, "la pagina variegata, tutta splendore di Clemente", "e Dionigi, guida saggia nel giorno del dubbio e della pena", "e Origene dall'occhio d'aquila", e, dopo Basilio, - col suo "alto proposito di colpire l'eresia imperiale" - "la grazia divinamente insegnata del Nazianzeno", e "Atanasio dal cuore regale", che altrove definirà "instancabile Atanasio"; mentre un'intera poesia sarà dedicata a Gregorio di Nazianzo.
Né meno poeticamente ispirato è un brano di prosa del saggio sul Crisostomo, dove quattro dottori della Chiesa sono paragonati alle quattro stagioni: "(Basilio) somigliava a una calma, mite, composta giornata d'autunno; san Giovanni Crisostomo era invece una giornata di primavera, luminosa e piovosa, splendida fra sprazzi di pioggia. Gregorio era l'estate piena, con un lungo intervallo di dolce quiete; la sua monotonia era interrotta da lampi e tuoni. E sant'Atanasio ci dà l'immagine dell'inverno rigido e accanito, con i suoi venti violenti, i terreni incolti, il sonno della grande madre, e in cielo le stelle luminose".
"I Padri mi fecero cattolico": Newman stesso lo dichiara a Edward B. Pusey. Questi aveva criticato il culto cattolico a Maria, ritenendolo uno sviluppo anomalo della pietà cristiana e un grave ostacolo per l'intesa degli anglicani coi cattolici, e Newman nella nota lettera a Pusey risponderà: "Non mi vergogno di basarmi sui Padri, e non penso minimamente di allontanarmene. La storia dei loro tempi non è ancora per me un vecchio almanacco. I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic), ed io non intendo buttare a terra la scala con la quale sono salito per entrare nella Chiesa".
E, dopo aver terminato The Church of the Fathers, scriverà: "La mia Chiesa dei Padri è ora terminata. È il libro più bello - the prettiest book - che io abbia scritto. E non c'è da sorprendersi, dal momento che si compone tutto di parole e di opere dei Padri".
È lui stesso a riferire quanto si diceva: "Intorno a noi da ogni parte si alzavano voci, a gridare che i Tracts e gli scritti dei Padri ci avrebbero portato al cattolicesimo prima che ci avvedessimo" e a ricordare il suo prosternarsi "con amore e venerazione ai piedi di coloro - sta parlando dei padri calcedonesi - la cui immagine ebbi sempre davanti agli occhi e le cui armoniose parole risuonarono sempre al mio orecchio e sulle mie labbra". Si viene drammaticamente accorgendo che l'antica ortodossia patristica e conciliare continuava nella Chiesa di Roma, e la sua coscienza gli imponeva di prendere la decisione coerente: "Se sant'Ambrogio e sant'Atanasio tornassero all'improvviso in vita - scrive nello Sviluppo della dottrina cristiana - non vi ha dubbio quale confessione riconoscerebbero come la loro". Commenta con finezza il Gorce: "Newman non ha che da cantare il Nunc dimittis (...) Dopo essere stati gli strumenti della sua agonia, i Padri sono diventati finalmente gli artefici della sua risurrezione".
Newman stesso nell'Apologia pro vita sua ricorderà come nella stesura de Gli ariani del iv secolo i Padri abbiano via via influito su di lui. Così, scrive: "La vasta filosofia di Clemente e Origene mi entusiasmò (...) Certe parti del loro insegnamento, di per sé magnifiche, mi giungevano come una musica nell'orecchio della mia anima, quasi fossero la risposta a idee che, con ben poco incoraggiamento all'esterno, io accarezzavo da tanto tempo".
Fatto quindi cattolico, Newman affermerà che la lettura dei Padri era per lui fonte di "delizia"; egli li sentiva e li considerava come suoi familiari. Alcuni di essi erano i suoi "vecchi amici del secolo iv". Gli scritti dei padri erano i suoi "archivi di famiglia".
"Mi ricordo bene - scrive Newman - come, entrato finalmente nella comunione cattolica, baciavo i volumi di sant'Atanasio e di san Basilio con delizia, con la percezione che in essi ritrovavo molto di più di quello che avevo perduto, e come dicevo a queste pagine inanimate, quasi parlando direttamente ai gloriosi santi che le hanno lasciate in eredità alla Chiesa: "Ora, senza possibilità alcuna di errore, voi siete miei, e io sono vostro"".
I Padri - è l'osservazione del geniale Brémond - sono rievocati da Newman non come figure definitivamente perdute nel passato, ma come suoi veri contemporanei: "Poeta, veggente, la Chiesa dei Padri gli è presente e familiare quanto i suoi amici di Oxford e di Birmingham", così come "Ciro, in cui Teodoreto vive in esilio, "uggiosa, banale, con la sua popolazione insignificante", è Birmingham. Antiochia, l'elegante e la raffinata, ora che Alessandria ha perso il suo Atanasio, Antiochia è Oxford".
"Sempre il ricordo dei Padri - annota il Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto: "Questo è il luogo più meraviglioso (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu sant'Ambrogio, sant'Agostino, santa Monica, sant'Atanasio".
D'altronde, Newman non accostava i padri in modo astratto, unicamente interessato, da storico e da teologo, allo studio della loro dottrina, ma al fine - sono le sue parole - di penetrare nella loro "vita reale, nascosta, ma umana o, come si dice, l'"interno" di queste gloriose creature di Dio".

(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)

1 commento:

Pax et Bonum ha detto...

I Padri della Chiesa sono lo specchio del "Padre".

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