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mercoledì 16 aprile 2014

Le sette parole di Gesù in Croce 4 - commenti di Giovanni Paolo II - Dio mio, Dio mio

Papa Wojtyla commenta le parole di Gesù in croce. Oggi rileggiamo la catechesi sul grido di Gesù al Padre:
Quarta parola:

"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" 
(Mt 27,46; cfr. Sal 22[21],2)

Giovanni Paolo II,  Mercoledì 30 novembre 1988

1. Stando ai sinottici, Gesù sulla croce gridò due volte (cf. Mt 27, 46-50; Mc 15, 34-37); del secondo grido solo Luca (Lc 23, 46) esplicita il contenuto. Nel primo grido si esprimono la profondità e l’intensità della sofferenza di Gesù, la sua partecipazione interiore, il suo spirito di oblazione, e forse anche la lettura profetico-messianica che egli fa del suo dramma sulla traccia di un salmo biblico. Certo il primo grido manifesta i sentimenti di desolazione e di abbandono provati da Gesù con le prime parole del salmo 22 [21]: “Alle tre Gesù gridò con voce forte: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»” (Mc 15, 34; cf. Mt27, 46).
Marco riporta le parole in aramaico. Si può supporre che quel grido sia parso talmente caratteristico che i testimoni auricolari del fatto, quando narrarono il dramma del Calvario, abbiano trovato opportuno ripetere le parole stesse di Gesù in aramaico, la lingua parlata da lui e dalla maggior parte degli israeliti suoi contemporanei. A Marco, esse potrebbero essere state riferite da Pietro, come avvenne per la parola “Abbà” = Padre (cf. Mc 14, 36) nella preghiera del Getsemani.

2. Che in quel suo primo grido Gesù usi le parole iniziali del salmo 22[21] è significativo per varie ragioni. Nello spirito di Gesù, che era solito pregare seguendo i testi sacri del suo popolo, dovevano essersi depositate molte di quelle parole e frasi che particolarmente lo impressionavano, perché meglio esprimevano il bisogno e l’angoscia dell’uomo dinanzi a Dio e in qualche modo alludevano alla condizione di colui che avrebbe preso su di sé tutta la nostra iniquità (cf. Is 53, 11).
Perciò nell’ora del calvario fu spontaneo per Gesù appropriarsi di quella domanda che il salmista fa a Dio sentendosi spossato dalla sofferenza. Ma sulla sua bocca il “perché” rivolto a Dio era anche più efficace nell’esprimere un dolente stupore per quella sofferenza che non aveva una spiegazione semplicemente umana, ma costituiva un mistero di cui solo il Padre possedeva la chiave. Per questo, pur nascendo dalla memoria del salmo letto o recitato nella sinagoga, la domanda racchiudeva un significato teologico in relazione al sacrificio, mediante il quale Cristo doveva, in piena solidarietà con l’uomo peccatore, sperimentare in sé l’abbandono di Dio. Sotto l’influsso di questa tremenda esperienza interiore, Gesù morente trova la forza per esplodere in quel grido!
E in quella esperienza, in quel grido, in quel “perché” rivolto al cielo, Gesù stabilisce anche un modo nuovo di solidarietà con noi, che siamo portati così spesso a levare occhi e bocca al cielo, per esprimere il nostro lamento e qualcuno persino la sua disperazione.

3. Ma sentendo Gesù pronunciare il suo “perché”, impariamo che, sì, anche gli uomini che soffrono possono pronunciarlo, ma in quelle stesse disposizioni di fiducia e di abbandono filiale, di cui Gesù ci è maestro e modello. Nel “perché” di Gesù, non c’è alcun sentimento o risentimento che porti alla rivolta, o che indulga alla disperazione; non c’è l’ombra di un rimprovero rivolto al Padre, ma l’espressione dell’esperienza di fragilità, di solitudine, di abbandono a se stesso, fatta da Gesù al posto nostro; da lui che diventa così il primo degli “umiliati ed offesi”, il primo degli abbandonati, il primo dei “desamparados” (come li chiamano gli spagnoli), ma che nello stesso tempo ci dice che su tutti questi poveri figli d’Eva veglia l’occhio benigno della Provvidenza soccorritrice.
4. In realtà, se Gesù prova il sentimento di essere abbandonato dal Padre, egli però sa di non esserlo affatto. Egli stesso ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30), e parlando della passione futura: “Io non sono solo perché il Padre è con me” (Gv 16, 32). Sulla cima del suo spirito Gesù ha netta la visione di Dio e la certezza della unione col Padre. Ma nelle zone a confine con la sensibilità e quindi più soggette alle impressioni, emozioni e ripercussioni delle esperienze dolorose interne ed esterne, l’anima umana di Gesù è ridotta ad un deserto, ed egli non sente più la “presenza” del Padre, ma fa la tragica esperienza della più completa desolazione.

5. Qui si può tracciare un quadro sommario di quella situazione psicologica di Gesù per rapporto a Dio.
Gli avvenimenti esterni sembrano manifestare l’assenza del Padre, che lascia crocifiggere suo Figlio, pur disponendo di “legioni d’angeli” (cf. Mt 26, 53), senza intervenire per impedire la sua condanna a morte e il suo supplizio. Nell’Orto degli Ulivi Simon Pietro aveva sfoderato a sua difesa una spada, bloccato subito da Gesù stesso (cf. Gv 18, 10 s); nel pretorio, Pilato aveva ripetutamente tentato manovre diversive per salvarlo (cf. Gv 18, 31-38 s;19, 4-6, 12-15); ma il Padre, ora, tace. Quel silenzio di Dio grava sul morente come la pena più pesante, tanto più che gli avversari di Gesù considerano quel silenzio come una sua riprovazione: “Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene, giacché ha detto: sono Figlio di Dio!” (Mt 27, 43).
Nella sfera dei sentimenti e degli affetti, questo senso dell’assenza e dell’abbandono di Dio è stata la pena più pesante per l’anima di Gesù, che attingeva la sua forza e la sua gioia dall’unione con il Padre. Questa pena rese più dure tutte le altre sofferenze. Quella mancanza di conforto interiore è stata il suo maggiore supplizio.

6. Ma Gesù sapeva che con questa fase estrema della sua immolazione, giunta alle più intime fibre del cuore, egli completava l’opera di riparazione che era lo scopo del suo sacrificio per la riparazione dei peccati. Se il peccato è separazione da Dio, Gesù doveva provare nella crisi della sua unione con il Padre, una sofferenza proporzionata a quella separazione.
D’altra parte citando l’inizio del salmo 22 (21), che forse continuò a dire mentalmente durante la passione, Gesù non ne ignorava la conclusione, che si trasforma in un inno di liberazione e in un annuncio di salvezza dato a tutti da Dio. L’esperienza dell’abbandono è dunque una pena passeggera, che cede il posto alla liberazione personale e alla salvezza universale. Nell’anima afflitta di Gesù tale prospettiva ha certo alimentato la speranza, tanto più che egli ha sempre presentato la sua morte come un passaggio alla risurrezione, come la sua vera glorificazione. E a questo pensiero la sua anima riprende vigore e gioia sentendo che è vicina, proprio al culmine del dramma della croce, l’ora della vittoria.

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